La recluta – Alan Drew



Alan Drew
La recluta
SEM
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Cosa possono avere in comune una coroner di bell’aspetto, un proprietario di un market vietnamita e un imprenditore immobiliare brutalmente assassinato nella sua villa a Rancho Sant’Elena, nella California meridionale?
Se guardiamo alla storia degli Stati Uniti non è raro incrociare sul nostro cammino percorsi di vita provenienti da tutti i continenti, che si incrociano all’ombra della grande mela o nelle sabbie del dirty south. Ancora meno rara è la possibilità che queste storie si incontrino per poi scontrarsi e annientarsi in un climax di odio, razzismo e suprematismo.
Alan Drew conosce benissimo queste storie, per averle vissute sulla propria pelle in California prima e in Asia poi, tra viaggi e lezioni di letteratura. “La recluta” è un thriller che unisce le tinte del giallo a quelle di un romanzo di formazione capovolto e rovesciato su se stesso, in cui un adolescente viene indottrinato e utilizzato come carne da macello da una setta di suprematisti bianchi in odore di nazismo.
Ciascun personaggio di questa sporca storia conserva sulla propria pelle le ferite di un passato, che riaffiora proprio quando sembrava ormai dimenticato. Ferite difficili da cancellare, perché fanno parte del DNA stesso degli USA, fatto di migrazioni, di guerre autodistruttive e di un’integrazione difficile da attuare.
La storia di Bao Pahn e della figlia Linh appartiene a quella schiera di vietnamiti che non sono riusciti a trovare nessun american dream lontano da Saigon. Al contrario, nel tentativo di sentirsi pienamente americana e di amare di conseguenza, la povera Liah è stata trascinata in un incubo di vendette sanguinarie.
Natasha, di professione coroner, ma prima ancora volontaria nel campo profughi dove si era riparato Bao con la figlia, ha rischiato di essere travolta nella scia di sangue che, dapprima ha disegnano sparuti atti intimidatori nei confronti di comunità straniere, e, in seguito, ha messo a segno una serie di attentati, orchestrati da una mente criminale che sembra uscita dalle cronache di un’America a noi vicina. 
Ed è proprio in questo che bisogna riconoscere la bravura di Drew: non tanto nella creazione della suspence o di un intreccio secondi i canoni del classico giallo investigativo, operazione non riuscita (forse neanche voluta) a causa di un doppio filone narrativo in cui il colpevole balza sin da subito agli occhi del lettore; quanto nella capacità di parlare di un’America contemporanea, pur raccontando una storia ambientata nel 1987, quando Internet era ancora un affare per pochi.
Leggendo le farneticazioni del reverendo Wales e dei suoi adepti, del Posse Comitatus  e dell’America’s Divine Promise Ministries, sembra di leggere le ideologie dei suprematisti bianchi di oggi, attraverso quelli di ieri. L’odio razziale contro gli ispanici e gli asiatici che Drew attribuisce alla gang dei Rowan è lo stesso che ha infiammato la campagna elettorale che ha portato Donald Trump dagli slogan del Make America Great Again direttamente alla Casa Bianca. La forza dirompente delle prediche in radio del reverendo Wales è la stessa dei post sui social network di QAnon, che hanno segnato l’ultima stagione del complottismo a stelle e strisce.
A questo si aggiunge la mancanza di fiducia nelle istituzioni e nel “liberalismo post diritti civili”, come afferma un personaggio collegato a questa setta religiosa di suprematisti della razza bianca. La giustificazione di tutto quest’odio viene attribuita a libri di fantomatici studiosi dei testi sacri, portatori di verità che nessun governo vuol ammettere per non perdere il proprio potere. È una caratteristica tipica della grande nazione americana, impregnata di un protestantesimo che spinge chiunque a leggere e predicare in autonomia, da un pulpito di cristallo, privo di solide basi scientifiche e dottrinali. 
Ad oggi negli USA queste sette pseudo-religiose, che vogliono superare e disconoscere tutte le istituzioni dello Stato, sono sempre più numerose e raccolgono adepti che si espandono in tutto il mondo: la One People’s Public Trust è una di queste, che in Italia ha avuto recente visibilità con la cellula Noi è, io Sono, La Nazione. La storia del giovane Jacob Clay può rientrare a pieno in un questo schema di pericolose farneticazioni. Il ragazzo viene a scoprire la tresca amorosa tra il padre Lucas (reduce di guerra in Vietnam e fortemente traumatizzato da quell’esperienza) e Linh, la vietnamita figlia di Bao; irretito dal suprematista Ian Rowan, figlio di cotanto padre, si spinge in intreccio di odio più grande di lui, fino al gesto estremo dell’attentato terroristico. È una storia di fragilità a tutto tondo, dal padre ossessionato dai cadaveri che sparso in tutto il Vietnam, al bambino ossessionato dalle bombe che si costruisce in solitudine in garage.
Quanti Ian Rowan esistono negli Stati Uniti? Tanti, così come sono tanti e i Jacob Clay che dal Washington arrivano fino in California: adolescenti fragili e facilmente adescabili da chi crede di appartenere ad una razza superiore, che non ha altro obiettivo se non quello di distruggere il presupposto su cui si dovrebbe basare la stessa razza umana, ovvero la fratellanza e la solidarietà.
E le forze dell’ordine in tutto ciò? Lasciamolo esprimere direttamente a Benjamin Wade, poliziotto e compagno di Natasha: “Alcune persone entravano in polizia per servire, e riconoscevano che spesso c’era un’autentica sofferenza alla base di molti crimini. Altre si arruolavano perché odiavano gli altri e desideravano occasioni quotidiane di manifestare il loro disprezzo”. 
È la voce del narratore stesso a mettere in risalto la conflittualità interna al mondo della Polizia, che dovrebbe essere il braccio armato della legge, ma che diventa esso stesso terreno di scontro all’interno della legge e della morale. “Tra i poliziotti bianchi che pattugliavano i quartieri latini alcuni erano apertamente razzisti, altri usavano il distintivo per giustificare la violenza contro persone che avevano giurato di proteggere e servire, e così la comunità diffidava di tutti i poliziotti, anche di quelli buoni. Era sfibrante, sembrava una guerra in cui loro erano gli invasori”. Niente di più vicino a noi, quando leggiamo sui nostri quotidiani dell’ennesimo sopruso delle forze dell’ordine ai danni di un cittadino afroamericano.
“La recluta” parla di un’America vecchia di quarant’anni, ma siamo sicuri che questo paese sia invecchiato bene?

Antonio Sabia

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