L’uomo della dinamite – Henning Mankell



Henning Mankell
L’uomo della dinamite
Marsilio
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Frammenti di una vita. Come i pezzi di montagna che una carica di dinamite ha fatto saltare, portando via un occhio, una mano e altre tre dita a Oskar Johansson. “L’uomo della dinamite” (Marsilio Editori) di Henning Mankell è la storia del brillatore di 23 anni a cominciare da quel sabato di giugno del 1911, in cui l’esplosione della dinamite, oltre a mandare in pezzi una montagna, cambiò il corso della sua vita. Ma forse nemmeno poi tanto.
Questo è il romanzo d’esordio di Mankell, scritto nel 1972 e ripubblicato nel 1997 con soltanto alcune piccole modifiche lessicali, come scrive l’autore nella prefazione. Un romanzo apparentemente strano, con una storia fatta spesso di episodi minimi, tutta centrata, all’apparenza sul miracolato operaio Johansson. In realtà attraverso i suoi ricordi, le sue reticenze, le immagini di una vita durata 81 anni, contro ogni previsione dopo l’incidente, il narratore (come ama definirsi Mankell entrando direttamente nella storia) racconta i cambiamenti politici, sociali, economici della Svezia, dall’inizio del Novecento agli anni della contestazione. Tanto per rimanere ai 25 anni trascorsi dalla prima stesura, lo scrittore svedese sottolinea che “… i poveri e gli emarginati sono diventati ancora più poveri in questi ultimi venticinque anni. E la Svezia è passata dal decoroso tentativo di costruire una società equa al saccheggio della cosa pubblica. Una suddivisione sempre più netta tra persone utili e persone in utili. Ai margini delle grandi città svedesi oggi ci sono dei ghetti. Venticinque anni fa non c’erano”. Questo nel 1997, data della seconda edizione, che è quella pubblicata da Marsilio.
Pensate quanto possa essere stata diversa la Svezia dal 1911 al 1969, l’arco di tempo in cui si snoda la vita del personaggio. Cinquantotto anni di stravolgimenti assoluti, in cui Oskar è stato protagonista, a volte inconsapevole, ma attraverso cambiamenti sempre graduali, mai improvvisi. Lui è stato un operaio per tutta la vita, appartiene a un gruppo ben definito, a sé stante, certo menomato, ma sempre e solo operaio. Se l’è passata come tutti gli altri, tra lavoro e disoccupazione, soldi pochi e poi un po’ di più, intorno la società cambiava e loro insieme. “Operaio lo sono sempre stato – dice Oskar -. Ne sono cambiate di cose, ma non per noi”. Il passaggio chiave per interpretare il libro è questo: “Oskar non punta mai i riflettori su di sé. Continua a insistere che non ha nulla di speciale, ma non dice mai cosa significhi per lui «speciale». Dice di essere come tutti gli altri. Niente di più. Un brillatore con moglie e figli. Importante solo per la sua famiglia, per niente e nessun altro. Non sente di aver preso parte ai cambiamenti. Sono avvenuti, e hanno avuto le loro conseguenze. Ma non è stato lui a provocarli in prima persona. L’operaio è parte integrante della società, ma sono altre le forze che la governano e la trasformano. È questo, in sostanza, ciò che intende Oskar quando dice di non avere nulla di speciale. Ed è qui che le nostre opinioni divergono”.
E la narrazione punta a ricostruire, tra reticenze e pezzi di ricordi, la vita di un uomo che ha attraversato i cambiamenti diventandone in realtà protagonista soprattutto grazie alle sue spontanee tensioni morali, alla sua storia divisa tra capitalismo e socialismo, tra rivoluzione e riformismo. L’evoluzione politica di Oskar è la sua stessa vita, tanto che nel ’68, ormai anziano, è felice per le lotte operaie e studentesche, vorrebbe essere lì a dare una mano. Anche se la sua adesione alla socialdemocrazia prima e al socialismo poi, sono state quasi una evoluzione naturale, senza impennate, del suo essere operaio.
È un Mankell quasi sconosciuto quello che emerge dalle pagine di questo libro, ma serve a capire il Mankell conosciuto, quello del commissario Kurt Wallander e della inquietudine svedese, che pervade i romanzi della serie.

Michele Marolla

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