Made in Sweden



Anders Roslunf e Stefan Thunberg
Made in Sweden
Mondadori
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“Made in Sweden”  una storia criminale a Stoccolma di Anders Roslunf e Stefan Thunberg è l’ennesima dimostrazione che, nell’immaginario collettivo popolato di luoghi comuni, la Svezia non è  soltanto la terra che grazie all’Ikea ha concepito l’arredamento come punto d’incontro tra design e convenienza economica. Perché oramai la Svezia è, almeno per volume di produzione, la patria del romanzo poliziesco a sfondo criminologico.
In quest’opera, che romanza un fatto di cronaca vera (quella che ha avuto per protagonisti i fratelli Johan Alin e Lennart Sumonja), l’interesse degli autori si concentra sulla genesi e sulle dinamiche dello spirito rapace di Leo, Felix e Vincent che, con l’amico Jasper, mettono a segno una serie di “colpi del secolo”.
“Che tre fratelli e un amico d’infanzia, tutti sui vent’anni, mocciosi senza alcuna istruzione, decidessero di mettere a segno il più grande furto d’armi della storia svedese, scandinava, occidentale, con semplici nozioni da muratori, un bel po’ di esplosivo e un fratello maggiore che sapeva come fare perché gli altri si fidassero di lui?”
Sotto l’egemonia del fratello maggiore Leo, la banda inaugura le proprie gesta assaltando un portavalori e, sospinta dall’ebbrezza del successo, prosegue nelle azioni criminose (“Pur essendo appena rientrato era già partito per il prossimo colpo”) di grosso taglio.
L’interesse dei narratori è sempre concentrato sugli aspetti psicologici: l’inclinazione a delinquere nasce dalla violenza sperimentata in famiglia; xenofobia ed emarginazione favoriscono l’insorgenza degli istinti criminali; il legame simbiotico che unisce i fratelli (“Loro, invece, erano fratelli che si fidavano l’uno dell’altro”) agisce da catalizzatore; i fratelli si coalizzano per combattere contro tutti (“Almeno una cosa era riuscito a insegnarla ai suoi figli: a stare insieme, contro tutti; persino contro di lui”).
Si occupa del caso il commissario  John Broncks, un uomo che per bagaglio professionale (“Un’indagine dopo l’altra, quasi tutte di quel tipo. Ma non era per chi picchiava, o per chi era picchiato… Era per le botte”) è attento a cogliere anche i minimi particolari nei pochi fotogrammi delle riprese degli assalti, al fine di decodificare gli espedienti cui i malviventi ricorrono per confondere le idee degli inquirenti (“Io non ci credo. Non credo a Jafar e Gobek”).
Il romanzo è un tomo minuzioso nelle descrizioni e ricco di particolari; la narrazione, a volte concitata, è un andirivieni tra passato e presente ed è imbevuta di amarezza implicita nella ricerca eziologica dei comportamenti delittuosi.

Bruno Elpis

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