Piccoli attimi di misericordia – Dennis Lehane



Dennis Lehane
Piccoli attimi di misericordia
Longanesi
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Quand’è che un libro può dirsi davvero riuscito? Forse quando lo si divora. Quando si approfitta anche solamente di quei due minuti liberi per leggerne qualche pagina. E, arrivati all’ultima, si rallenta quasi senza accorgersene, nel disperato tentativo di posticipare il più possibile il momento della fine, del distacco: quel momento che ormai non vorremmo arrivasse più. Oppure quando riesce a scavare dentro, in profondità. Quando apre a un nuovo sguardo sul mondo, avvicinandoci a realtà che fino ad allora abbiamo creduto esserci lontane per poi scoprire che non lo sono mai state davvero. E arriva a rimettere in discussione noi, il mondo che ci circonda. E noi nel mondo che ci circonda. 

Se Piccoli atti di misericordia può dirsi davvero riuscito è per ognuno di questi “quando”. Ma anche per i “cosa”, i “chi”, i “come”, i “perché”. I “cosa” racconta: una realtà storica attraversata da fantasmi che aleggiano ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, sotto i nostri occhi. È l’estate del 1974, siamo nella periferia di Boston: quartieri disagiati, dove l’unica legge riconosciuta è quella del più forte e la gratuità della violenza è all’ordine del giorno. Il degrado dalle strade penetra nelle case: la droga, l’alcool, gli abusi. Figli senza guida, genitori perduti. Qui si muore anche solo per un rifiuto. Qui si muore anche solo per il colore della pelle. L’odio razziale che scatena il branco: allora come oggi. Senza una logica, senza una ragione.    

E poi i “chi”. Persone, non personaggi. Perché se è vero che a ogni scrittore piace dire di conoscere realmente i suoi personaggi, qui quello che traspare è che l’autore, Dennis Lehane, non si è limitato a conoscerli: li ha proprio vissuti. E non perché siano davvero esistiti, ma per “come” li ha ritratti. Nei loro chiaroscuri. Nelle loro pulsioni. Nei loro “piccoli atti di misericordia”. Nella loro disumanità. Ha vissuto Mary Pat Fennessy e percepito il dolore che si porta dentro. La morte del marito prima, quella del primo figlio poi: sopravvissuto alla guerra, ucciso dalla droga. Lehane sa cosa si nasconde dietro la ruvidezza di questa donna: sa che la vita non le ha regalato nulla, che non le ha mai fatto sconti. E ora a minarne l’equilibrio instabile la scomparsa della figlia diciassettenne Jules che, uscita con gli amici in quella calda notte dell’estate del 1974, non ha più fatto rientro a casa. Quella stessa notte in cui sui binari della metropolitana viene rinvenuto il cadavere di Auggie Williamson, giovane studente di colore. Ucciso, brutalmente. Lehane lo ha incontrato, conosciuto, vissuto: la sua determinazione, la voglia di farcela in un mondo che a chi è come lui non sorride. Insieme ai genitori di Auggie, anche Lehane ne ha pianto la morte. Una morte a cui il detective Bobby Coyne è deciso a dare un senso, a dare giustizia. La giustizia a cui ognuno dovrebbe avere diritto. Indipendentemente dal colore della pelle, indipendentemente da tutto.  

Lehane li ha davvero vissuti. Mary Pat, Auggie, i suoi genitori, Bobby. E non solo. Traspare dalle pagine. Li ha inseguiti per le strade di Boston, in quel “merdaio” in cui vivono, i caseggiati popolari del Commonwealth. Un “merdaio”, dice Mary Pat, che annienta ogni disparità. Né bianchi, né neri: lì, in quel “merdaio” perdono tutti, sconfitti dalla vita. Nessun migliore, nessun peggiore. Lo sa Mary Pat. E lo sa anche Lehane che, senza mai giudicare, ritrae attimi di grande durezza e sconvolgente crudeltà intrisi di riflessione, di profondità. Il migliore: il confronto tra Mary Pat e la madre di Auggie. Pagine che scavano dentro, rimangono impresse. E qui sta il “perché”: questi “piccoli atti di misericordia” parlano al lettore. Lehane parla al lettore. Nella pluralità di esistenze a cui dà voce. Mary Pat, Bobby, Auggie: storie che si fanno Storia. E parlare in questo modo non è da tutti: solo chi riesce, può dirsi davvero riuscito. E questo romanzo, lo è.   

Giulio Oliani

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