Sete. Questa parola che dà il titolo all’ultimo romanzo di Jo Nesbo, undicesimo della serie di Harry Hole, si potrebbe declinare in maniera diversa per ogni personaggio del romanzo.
Sete, per Katrine Bratt, che ora è al comando della Sezione Crimini Violenti della Polizia di Oslo, è una sete di amore e attenzioni che la vita sembra negarle; pur nel fuoco di fila degli eventi che deve fronteggiare, sente dentro di sé un vuoto che pare incolmabile.
Sete, per Mikael Bellman, ora capo della Polizia di Oslo, è una sete di potere, un’ambizione irreprimibile che lo spinge ad accettare una candidatura politica importante, lui che politico in fondo lo è sempre stato, abile nello sfruttare qualsiasi situazione a suo favore, anche la più sanguinaria, come in questo caso.
Sete, per Truls Berntsen, vecchio amico di Bellman e ora agente alla Crimini Violenti, è la sete di un amore impossibile: quello per Ulla, moglie di Mikael, della quale è da sempre innamorato. Sete, per il “vampirista”, il serial killer al centro della storia, è una sete più letterale: sete di sangue, di morte e violenza. Ma la sete più emblematica di tutte, quella che restituisce pregnanza e anima alla storia, è proprio quella del suo protagonista, quell’Harry Hole che abbiamo imparato a conoscere e amare in questi venti anni attraverso la penna di Nesbo.
La sete di Harry Hole ha a che fare con brividi e caccia. Per quanto Harry possa infatti “nascondersi nell’ordinarietà del branco” – per citare lo stesso Nesbo – la sua sete riaffiora, violenta e implacabile. L’Harry che troviamo all’inizio della storia è un personaggio diverso rispetto a come lo avevamo lasciato in “Polizia”, il romanzo precedente. Hole non è più un poliziotto. È un semplice insegnante di psicologia criminale e tecniche investigative all’Accademia della Polizia. Il figlio adottivo Oleg è un suo allievo. La vita di Harry sembra avere qualcosa di idilliaco. Niente più alcool né droghe, niente più servizi notturni. Nessuna promessa infranta, nessuna operatività che va a cozzare contro la vita privata. Harry Hole è un uomo diverso, rappacificato. Ha sposato Rakel, e ha votato la sua vita alla famiglia. La morte, la violenza, e la perversione umana vengono a trovarlo solo nei suoi incubi, o nelle presentazioni in PowerPoint che prepara per i suoi allievi, in cui esamina i casi che ha affrontato in passato e che l’hanno ammantato di un’aura leggendaria.
Eppure Harry sembra come in attesa di qualcosa, di una “chiamata”, forse. Perché è pienamente consapevole che la sua natura poco ha a che fare con la pace e la tranquillità domestica. I suoi sogni sono popolati dal richiamo dell’abisso. E quella chiamata alla fine arriva. La pace di Oslo è rotta dalla “sete” di sangue di un assassino spietato, che utilizza la app di incontri Tinder per irretire e colpire le sue vittime. Vittime femminili, perlopiù, che vengono ritrovate con morsi bestiali, e mezzo litro di sangue in meno. Come se qualcuno se lo fosse portato via. O lo avesse bevuto. Vengono chiamati in causa psicologi e criminologi – Stale, è uno di questi – e la prima pista porta a pensare che c’è un “vampirista” all’opera: uno psicopatico sui generis che prova piacere nel bere il sangue delle sue vittime. La Crimini Violenti di Katrine Bratt prova a dargli la caccia, ma le indagini ristagnano. Bellman non può permettere che i giornalisti pensino che il “mostro” abbia la meglio sulla polizia e, pur di non perdere il proprio prestigio, in modo subdolo ricatta Harry Hole, costringendolo a rimettersi al lavoro: dovrà disporre insieme una squadra ausiliaria di investigatori per districare i nodi apparentemente irrisolvibili legati all’identità del “vampirista”. Hole non potrà che cedere al ricatto, e tornare a fare ciò che più odia e ama: cacciare, rimestare nel torbido della psiche umana, sebbene sia cosciente dei rischi che questo potrebbe scatenare. Sin dai primi passi, Hole avverte una strana sensazione.
Le sue straordinarie doti deduttive e l’esperienza accumulata negli anni lo portano presto a capire che quello con cui ha a che fare non è uno sconosciuto, ma probabilmente l’unico demone che non è riuscito a catturare. L’incubo di aver lasciato un mostro di tale portata a piede libero si fa sempre più concreto, e a quel punto la fermezza morale di Harry e i suoi sensi di colpa, lo incateneranno a un’indagine che si rivelerà la più pericolosa della sua carriera.
A vent’anni esatti dal debutto editoriale del suo investigatore, Jo Nesbo ci regala l’undicesima avventura del personaggio che gli ha donato successo e fortuna. Lo fa rimettendo insieme la vecchia squadra di Harry, rispedendolo in quella “Fornace” – un cubo di calcestruzzo senza finestre, sede della squadra operativa – che abbiamo imparato ad amare. Leggendo “Sete” la sensazione è quella di tornare a casa: Nesbo ha una scrittura vivida e veloce, profonda ma scattante, e cura con particolare attenzione gli aspetti psicologici dei suoi personaggi, bilanciando sapientemente l’elemento di tensione che tiene sempre in moto gli eventi e una trama dall’ingegneria meccanica perfetta. A “Tempo di Libri” durante la prima presentazione ufficiale del romanzo, Nesbo ha detto di scrivere sinossi dettagliate di addirittura cento pagine prima ancora di buttare giù una sola riga “creativa”; e questo è evidente nell’architettura degli eventi raccontati, dove niente è lasciato al caso. Un altro merito dell’autore norvegese è quello di essere stato capace di attendere: sono infatti trascorsi quattro anni dal precedente romanzo di Hole; Nesbo avrebbe potuto continuare a sfornare un romanzo all’anno del suo investigatore, ma ha preferito aspettare in cerca dell’idea e dell’indagine giusta. È stata una mossa intelligente, perché sebbene “Sete” non sia il migliore romanzo della serie, Jo Nesbo ha comunque dimostrato di nuovo al mondo del thriller scandinavo che c’è soltanto un re. Lui.
Piergiorgio Pulixi