Sono mancato all’affetto dei miei cari – Andrea Vitali



Andrea Vitali
Sono mancato all’affetto dei miei cari
Einaudi
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L’ultimo lavoro di Andrea Vitali è un lungo monologo interiore del protagonista, nonché voce narrante. Non ne conosciamo il nome, d’altronde lui da solo non si chiama mai, ma parla, parla tantissimo e ci racconta la sua vita. Uomo venuto dal niente, dopo aver passato qualche anno a bottega come garzone, realizza il sogno della vita, una ferramenta tutta sua. A suon di sacrifici e di notte in bianco con l’assillo delle preoccupazioni, la ferramenta diventa una bottega di tutto rispetto e ben rifornita. Una vita dedicata al lavoro, le vacanze non sono contemplate e poi si sa, la gente in ferie ad agosto può sempre aver bisogno di viti e chiodi per i lavoretti di casa. Orgoglioso di ciò che ha raggiunto, di essersi fatto da solo e pazienza per l’odore ferruginoso che si sente addosso a fine giornata, il nostro protagonista riflette sulla famiglia, in particolar modo sui tre figli, ormai cresciuti e pronti a cercare la propria strada nel mondo.  Studiare dal suo pratico punto di vista non serve a niente e i libri non portano il pane in tavola. Un po’ di studio è concesso, per non rimanere ignoranti, ma troppo no, si potrebbe diventare matti a forza di studiare. Di tutt’altro avviso Alice, la figlia femmina, che vorrebbe studiare ed andare all’università, ma si deve accontentare di finire le magistrali e iniziare con le supplenze, perché le piace insegnare. Finché non si sposa, e la sua occupazione dovrebbe essere di fare la moglie e la madre. Ma un matrimonio sbagliato la riporta a casa dai genitori, a vivere di rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, i sogni infranti in una quotidianità che non riesce ad accettare. Alberto invece di libri non vuol sapere e dopo l’ennesima bravata, il padre lo mette a lavorare in ferramenta. Nel giro di poco tempo diventa un valido sostegno per il padre, rendendolo orgoglioso. Ma la vita, si sa, mescola le carte. Conosce una ragazza bella, bellissima e dopo una cerimonia organizzata in fretta e furia perché i due giovani hanno fatto il guaio e la sposa non può presentarsi il giorno del matrimonio con il pancione, inizia una nuova vita: lavoro in ferramenta, questa volta stipendiato come si addice ad un capofamiglia, marito e padre. Lentamente però si allontana, sia dalla famiglia di origine che dal lavoro. Infine Ercolino, il più piccolo di casa, vive letteralmente chiuso in camera, chino sui quei libri così estranei al genitore. Parla poco e apre bocca solo per mangiare, e mangia tanto, il doppio di ogni porzione ma non ingrassa, forse il cibo va tutto in intelligenza come sostiene la madre. Non è il candidato ideale per il lavoro in ferramenta, vuole studiare ma deve prima riflettere, deve pensare e capire cosa vuole e parte, lascia la famiglia per ritrovare sé stesso, come gli ha insegnato il corso di filosofia che nel frattempo sta frequentando.

Un lungo monologo, appunto, attraverso il quale l’uomo racconta le sue peripezie di genitore, che ha creato una fiorente attività permettendo alla famiglia di sostenersi. Una famiglia normale, come tante altre, dove l’affetto non si riesce a manifestare, soffocato dalle incomprensioni sulle diverse visioni e aspettative quotidiane. Il romanzo è strutturato come un lungo racconto, senza capitoli, una scelta stilistica voluta per rendere concreti i pensieri del protagonista. Il linguaggio semplice, con espressioni e modi di dire del gergo dialettale rende l’idea del bisogno di buttar fuori tutto quello che si sente dentro… fino all’ultimo respiro.

Lucia Cristiano

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