Silenzio parla Raymond. E questa volta parla di sé. In ogni storia parla del sé, d’accordo. Ma questa è un’immersione. Nella sua vita. Con un ritegno da rasentare la pudicizia vittoriana. E nella sua scrittura. Nel nero che vede e che cerca di afferrare con le parole.
Dal castello nel Kent dove, ancora Robin Cook, viveva ricco e riverito, alle strade più malfamate d’Europa col nome con cui si è rivelato al mondo, in un turbinio esistenziale da rendere pallida la parabola di Charles Bukowski. Pagine asistematiche, poco inclini a voler soddisfare il prurito degli adoratori del suo profilo maledetto. L’avventura c’è tutta. Ma il profilo resta volutamente basso. Anche perché, come scrive, non lo abbandona la compagnia di un dubbio di fondo: quante menzogne rischio di scrivere volendo ricordare la verità?
Ma il vero luogo di Stanze nascoste, quello in cui la parola si fa carne viva, e il pensiero icastico al limite dello shock emotivo, è quello che si apre quando Derek Raymond estrae le vere radici diaboliche della sua vita: la scrittura e il noir.
Dentro di lui, nato a mezzanotte meno venti con un aspetto orribile (“un papero sbronzo” secondo suo padre), scopritore a cinque anni che le carte che gli erano “toccate in sorte non erano buone come sembravano”, considerato da chi gli vive accanto “bravo scrittore, ma uomo da poco”, è suonata una sola nota: scrivere, convertire in scrittura ciò che intendeva per vita. Scrivere noir. Per rendere l’inferno sopportabile. E distruggere il male definendolo.
Pagine incandescenti quelle in cui racconta la febbrile ossessione per Dora Suarez, romanzo e personaggio letterario. In preda a una scrittura che lo distrusse per diciotto mesi, dormendo senza spegnere la luce, visitato dal fantasma di questa donna, tra infinite inafferrabili domande su Dora che lo assalivano, come se si fossero conosciuti davvero. Punta inarrivabile di un modello che comunque Raymond prevede come base necessaria per scrivere noir: lo scrittore deve diventare parte dei personaggi e viceversa, deve lasciarsi assorbire totalmente, deve aver provato gli stessi sensi di colpa e di terrore dei personaggi. Perché? Semplice. Perché per lo scrittore noir “come tutti i disperati, la mancanza di futuro è tutto ciò che ha”. Perché “il noir nasce quando il genere umano è spinto alla follia, descrive uomini e donne che la sorte ha spinto troppo in là, la cui vita si è contorta e deformata”. Perché “chiunque non riesca a comprendere uno stato di disperazione così profondo in cui l’unica speranza rimasta è quella di morire, non potrà mai comprendere il significato della pazzia”. Perché “non è credibile uno scrittore che non sia mai stato tormentato dal fantasma di una morte violenta, che prorompe all’improvviso nella stanza, né abbia mai provato su di sé l’angoscia della disperazione assoluta”.
Altrimenti, per “scrivere cose orribili senza averle vissute” ci sono insipidi sostituti come il giallo e il poliziesco. Una bestemmia, per chi ha combattuto il dolore a mani nude.