Un po’ meno di niente racconta il microverso degli autori di genere. Intervista a Vanni Sbragia.


Vanni Sbragia ( pseudonimo di un noto autore) da pochissimi giorni in libreria con Un po’ meno di niente, Fernandel, ci racconta come e perché è nato il libro.
Un omicidio e un’indagine che coinvolgono “il circo” che sta attorno al mondo letterario, come è nata l’idea del libro?
Volevo parlare dell’ambiente editoriale e del microverso degli autori di genere, per togliermi qualche sassolino dalla scarpa. Di solito  utilizzo i social per questo tipo di esternazioni, ma ho pensato che in un romanzo avrei trovato più spazio, anche per scherzarci sopra. Un saggio era fuori discussione, non mi interessava scriverlo e non sarebbe interessato a nessuno leggerlo, quindi ho ripiegato su un genere più commerciale a me congeniale (essendo quello che scrivo abitualmente da oltre dieci anni): il giallo.

Accanto ai personaggi inventati hai inserito nomi e persone reali ( a mio avviso, degno di nota è l’occhialuta Aicardi), perché questa scelta?
Quali sono, se ci sono, i rischi di questa operazione?

I rischi sono calcolati perché tutti i nomi di persone reali sono più che altro dei “camei”, degli omaggi, brevissime apparizioni o citazioni che servono a rendere più realistico il racconto. L’unica eccezione è l’autore Paolo Roversi che interagisce con il protagonista del romanzo in un capitolo dedicato al festival NebbiaGialla. Confido che Paolo non mi faccia causa in nome della nostra vecchia amicizia… Ma nel caso ho già pronto un famoso avvocato che applica tariffe bassissime.

Vanni Sbragia è bugiardo, meschino, egocentrico ed opportunista e incarna perfettamente tutti i difetti del mondo che descrive e di cui è ingranaggio senziente e consapevole, eppure, in fin dei conti, risulta simpatico con la sua cinica ironia e la vaga sfigaggine. Come si costruisce un “cattivo” che piace?
È ormai noto che per i lettori è più facile, simpatizzare con il cattivo che con l’eroe senza macchia e senza paura. Con i personaggi negativi scatta un meccanismo di immedesimazione che ci permette di sublimare tensioni e pulsioni represse che nella vita reale, in qualche modo,  teniamo a bada grazie al nostro senso morale ed etico ma che ci appaga moltissimo veder sfogare da qualcun altro che pone in atto comportamenti violenti e moralmente discutibili al posto nostro. Per costruire un cattivo credibile, in genere parto da me stesso, dai miei lati  oscuri, le mie manie, le mie inquietudini, e le amplifico all’estremo. Vanni Sbragia è nato così.

Vanni Sbragia ne ha per tutti, scrittori, aspiranti tali, blogger e giornalisti, non risparmia critiche nemmeno ai premi letterari. E se dovesse vincerne uno proprio con questo libro?
È molto molto difficile che accada, anche perché il libro non risparmia frecciate proprio al mondo dei premi letterari. Però non si può mai dire…

Chi si cela dietro Vanni Sbragia ha mai avuto il timore di rimanere in qualche modo schiacciato dal torbido ingranaggio che descrive, o di perdere il contatto con la realtà?
No, chi si cela dietro a Vanni Sbragia è una persona che, per sua fortuna, nella vita ha avuto riconoscimenti anche in altri campi, pertanto non soffre della smania compulsiva di apparire, di essere citato, premiato, lodato. Vive la scrittura come un aspetto positivo della vita che lo aiuta a esprimere la sua creatività, ma sa tenere i piedi per terra. Sa chi è, da dove viene e quali sono i suoi limiti. Certo, per riuscire a vincere un certo premio sarebbe anche disposto a uccidere, ma quello è un altro discorso…

Un libro o un’idea di trama si sono mai impossessati di te tanto da far passare tutto il resto in secondo piano?
Succede sempre. È una condizione assolutamente necessaria per far si che io cerchi e trovi il modo e il tempo per isolarmi e concentrarmi nella scrittura. Quando scrivo non esiste nient’altro o quasi. 

Perché hai scelto di usare uno pseudonimo?
Non certo per nascondere la mia identità. Ho parlato a tanti amici e addetti ai lavori di questo progetto, in molti ne sono al corrente, ma credo sia abbastanza facile per chiunque riconoscere chi c’è dietro. Lo pseudonimo era necessario per sottolineare che questo romanzo è qualcosa di diverso rispetto alla mia produzione abituale. È una specie di vacanza, di sfizio, di ristoro sotto forma di scrittura. Non sarebbe stato corretto confondere i miei lettori abituali (non sono tantissimi ma pur sempre qualche migliaio…) né mettere in difficoltà il mio solito editore. Ci sono regole, in questo mondo, che vanno rispettate. Persino ad alcuni  autori di best seller capita di compiere passi falsi quando cambiano il tipo di storia e di contenuti nei propri romanzi. Loro si rialzano tornando alla solita produzione, per me avrebbe potuto rivelarsi un errore irreversibile.  

Si è più liberi e più se stessi quando si firma con il proprio nome o quando ci si nasconde dietro un nom de plume?
Mi sono sentito molto libero nello scrivere questo romanzo proprio perché sapevo che non lo avrei proposto al mio editore che è fra i più importanti d’Italia ma è pur sempre un editore inquadrato e generalista (e non lo dico in senso negativo… semplicemente propone ai lettori un determinato tipo di romanzi molto riconoscibili). È stata un’esperienza di massima libertà proprio perché non collegata preventivamente ad un progetto editoriale definito. Quando il romanzo era ultimato, dopo averlo fatto leggere a qualcuno e aver incassato diversi elogi, ho iniziato a cercare un editore piccolo ma di qualità al quale affidarlo. Fernandel è stata la scelta perfetta e sono molto grato a Giorgio Pozzi di aver creduto in questa operazione che per dei versi poteva rivelarsi rischiosa.

Lo scrittore è un malato cronico di attenzione? Un uomo in cerca di consenso? Perché così’ dicendo sembrerebbe si scriva per piacere agli altri più che per se stessi.
Lo scrittore (soprattutto quello che appartiene al “mondo dello spettacolo dei poveracci” che è il carrozzone della narrativa di genere) è un narcisista cronico insicuro e bisognoso di conferme. È ormai noto che lo scrivere sia una deliberata richiesta d’amore. Il motivo di questa richiesta, in molti casi, rappresenta una ricerca disperata di sé stessi, del proprio “sacrosanto diritto di esistere”. 

Qual è il tuo rapporto con i social? Esiste la sincerità in rete o è tutto solo apparenza e captazio benevolentiae?
Sincerità? Ma scherzi? È un immondo calderone di apparenza e di disperazione. Io frequento Facebook per propagandare le mie cose e, qualche volta (molto di rado) per dire cosa ne penso di certe questioni editoriali, sociali, politiche. Ma è tutto inutile, è un mondo scoraggiante, una finestra spietata sulla condizione umana, su ciò che è diventato l’uomo. Una amara constatazione di una caduta irrefrenabile che solo la grazia potrà frenare. Ma la grazia non la troveremo mai nei social.

Perché definisci la fama dello scrittore “ gloria da stronzi? Tenendo ben conto che è quella che tutti più o meno cercano. E rimanendo in zona Guccini, la tua penna era “avvelenata” scrivendo?
La gloria “da stronzi” è quella di chi si agita tanto in un ambito dove le copie vendute sono sempre meno, i soldi manco a parlarne (mi torna in mente un vecchio successo dei Simply Red – Money too tight to mention) e la fama si limita a un ristretto gruppo di fan sui social. È un falso successo, una falsa notorietà, uno specchietto per le allodole. È come il wrestling… lo sanno tutti che è falso eppure continuano a far finta di crederci. Magari qualche sfigato ci crede davvero che siamo “scrittori famosi” ma bearsi di avere quel tipo di fan è talmente svilente da far provare vergogna. Meglio riderci sopra e fare della sana autocritica.
Mi chiedi se la mia penna fosse “avvelenata” durante la scrittura… Non lo so, forse sì, ma in un modo gioioso e divertito. Spero anche divertente (ma questo devono deciderlo i lettori).

Bukowski diceva; scrivo libri e poi ci metto il sesso per vendere.
Nel tuo libro invece sembra si faccia sesso per poi scrivere e pubblicare libri…

Il sesso come merce di scambio è una triste realtà in molti ambiti lavorativi. Il mondo dell’editoria non è esente da questa piaga. Ma essendo un mondo di cialtroni, alla fine non riesce a concludere nemmeno questo scambio scellerato. Spesso in questo mondo si baratta il sesso con  la “speranza” di pubblicare… e poi non si pubblica lo stesso. 

E’ giusto o sbagliato identificare un autore con la sua opera o con i suoi personaggi?
Si legge per essere altro da sé. E con la scrittura? Si scrive per essere se stessi o per essere altro?

È estremamente sbagliato identificare l’autore con l’opera. Più che sbagliato è ingenuo e poco intelligente. Si legge per compiere un viaggio dentro sé stessi. Si scrive per essere amati e per sentirsi vivi.

Hai mai accettato compromessi per pubblicare o lo avresti mai fatto?
Se intendi compromessi di tipo sessuale no, a chi vuoi che interessi da quel punto di vista? Magari a qualche vecchio omosessuale bavoso, come accadeva a Renato Pozzetto in certi suoi film…(scherzo).  Se invece parliamo di compromessi “creativi” sono abituato a lavorare molto sulle mie cose e a fidarmi di collaboratori esperti e professionali ai quali mi rivolgo sempre prima di proporre un romanzo a un editore. Certo, non ho mai dovuto snaturare i contenuti o lo stile dei miei romanzi, questo no, ma ho imparato molto lavorando con questa tecnica. Un compromesso al quale non cederò mai è scrivere su commissione cose che non i interessano o non sono nelle mie corde. Mi hanno chiesto romanzi storici e romanzi per ragazzi ma ho declinato l’offerta. Il tempo è poco e voglio impiegarlo solo per le cose che mi appassionano e mi divertono.

In Italia il numero degli aspiranti scrittori è quasi più alto di quello dei lettori? Significa che che la maggior parte della gente che scrive legge poco. Cosa spinge le persone a voler pubblicare a tutti i costi? 
Torniamo sempre lì… è la voglia di esserci, di essere notati, considerati, di emergere dalla massa. Lo ripeto… è il voler rivendicare il proprio “sacrosanto diritto di esistere”. L’illusione che chiunque possa esprimere la propria individualità attraverso i social si è dimostrata priva di fondamento. Pubblicare diventa un modo per aggirare questo scoglio, per farsi notare. Purtroppo in molti ritengono che scrivere sia una cosa alla portata di tutti e questo contribuisce al fatto che siamo inondati di libri-spazzatura, pubblicazioni a pagamento, auto pubblicazioni ecc.
È un circo ignobile e sconfortante e chi ci rimette sul serio sono due categorie di persone: i veri lettori e gli autori degni di questo nome.

Quanto ti se divertito a inventare le poesie del concorso che descrivi?
Le ho buttate giù senza pensarci, di getto, così come credo faccia la maggior parte dei poeti cialtroni da social.

Vanni, sei sicuro di avere nascosto bene le tue tracce?
No, per niente. Ma non è mai stato questo il mio intento, come ho già detto…

Ultima domanda: non temi che qualcuno si possa arrabbiare?
Guarda, sarò sincero: no. Anzi, quasi vorrei che accadesse. Ne gioverebbe l’editore se ne venisse fuori un piccolo caso mediatico ed è un editore che merita. Io, dal canto mio, sono un uomo di mezza età (abbondante) con un lavoro importante, una sincera e convinta disillusione nei confronti di tutto, che non ha nulla da guadagnare e che pertanto può benissimo fregarsene di perdere qualche falso amico di facciata. Me ne bastano pochi di amici, ma che siano autoironici e sinceri.

MilanoNera ringrazia Vanni Sbragia per la disponibilità
Qui la nostra recensione a Un po’ meno di niente.

Cristina Aicardi

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