Il mio investigatore senza licenza e senza ufficio- Intervista a Bruno Morchio


Intervistare un autore come Bruno Morchio mi ricorda perché questo lavoro mi piace così tanto e quanto si può apprendere da chiacchierate come questa sulla scrittura, sulla costruzione di un lavoro letterario e sulla lingua. L’evoluzione di un bravo autore contempla infiniti passaggi, studio, ricerca, passione, applicazione. Da lettrice mi sono sempre chiesta cosa rende particolare e speciale un libro anziché un altro. A volte è solo caso o fortuna. Tante altre è predisposizione autoriale. Ma quasi sempre è il frutto di tutte queste cose con l’aggiunta del rispetto per i lettori. Solo gli scrittori più grandi continuano quel percorso di studio e ricerca che accanto a una crescita personale li conduce anche a un rispetto reciproco con i lettori. Un dare e un ricevere medesimo dove ci si attende reciprocamente come si fa tra innamorati. In questa intervista Bruno lo spiega bene. 

E allora, buona lettura. 

Bruno parlaci di Mariolino, chi è, esiste sul serio, lo hai incontrato, a chi ti sei ispirato?
Mariolino Migliaccio è un investigatore genovese, con gli anni di Cristo (33), senza licenza e senza ufficio, riceve i clienti in un bar della città vecchia e vive in una camera fredda e mal illuminata del Bel Soggiorno, pensione di vico Stoppieri, popolata da una corte dei miracoli costituita da puttane, spacciatori, utenti dei servizi sociali e immigrati senza permesso di soggiorno. È un “abusivo” in tutti i sensi, e quindi sì, esiste davvero, perché è il simbolo di una generazione cresciuta in un paese dove gli ascensori sociali da anni si sono inceppati, dove chi è figlio di famiglia modesta è destinato a restare di condizioni modeste. O a peggiorare. Come è successo a lui, che non ha mai conosciuto il padre, un eroinomane morto di overdose prima della sua nascita, e la cui madre, la mitica Wanda, prostituta che esercitava in casa senza appoggiarsi a papponi o maîtresse, è stata uccisa da un cliente quando Mariolino frequentava l’ultimo anno del liceo classico. L’assassino non venne mai scoperto e questa circostanza è stata la molla che ha indotto il giovane a diventare un investigatore privato. Non l’ho mai incontrato, ma certo ho dovuto fare uno sforzo di immaginazione, mettermi addosso la sua pelle, aderire ai suoi pensieri, identificarmi con la sua personalità e parlare la sua lingua perché il romanzo è scritto in prima persona e la voce narrante è la sua. Non è la prima volta che mi succede, l’ho fatto in Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli 2020), dove a parlare era una diciassettenne nata e cresciuta nella periferia post-industriale genovese. L’aspetto che mi interessava affrontare, oltre che sociale, era quello letterario: misurare la narrazione con un’aporia strutturale del genere noir: qui l’investigatore non è un duro immacolato, ma un disperato che, per sopravvivere, è costretto a scendere a compromessi al ribasso con la propria coscienza. In questo romanzo, si mette al soldo di un boss malavitoso per ritrovare una prostituta minorenne albanese fuggita da un postribolo di lusso. E tuttavia, nel ginepraio che ne seguirà, Mariolino cercherà di non farsi schiacciare nel ruolo di tirapiedi del crimine. Il suo sarà un continuo barcamenarsi nel tentativo di non affogare senza vendere del tutto l’anima al diavolo.  


@Foto di Gianni Ansaldi.

I Carruggi come la periferia di Roma degli anni Ottanta, o le isole nordiche della nuova narrativa di genere scandinava, tutto sembra accadere e avere una fine nei vicoli più antichi e stretti di Genova. Ma non può essere solo un luogo fisico a questo punto nelle tue narrazioni. Quindi c’è una simbologia degli stessi tra le tue pagine e se così è quale potrebbe essere?
I carruggi (che non sono semplicemente i vicoli: la parola deriva da quadrivium, e dunque un carruggio è un vicolo che interseca un altro vicolo, dando luogo a quella fitta ragnatela di straducole che compongono la città vecchia) sono la periferia nel centro della città. Abbandonati in parte dai genovesi negli anni Sessanta e Settanta, hanno accolto la grande migrazione per poi ripopolarsi di indigeni alla fine degli anni Ottanta, quando moriva la Genova industriale e cominciava la conversione turistica della città. Per fortuna con c’è stata una gentrificazione paragonabile a quella di altre città turistiche e il “popolo dei carruggi”, fatto di genovesi autoctoni, immigrati dall’Italia meridionale e immigrati dall’Est e dal Sud del mondo, continua a far vivere la città vecchia, che con termine pomposo viene definita “centro storico”, sbagliando, perché Genova nasce dall’accorpamento di 19 comuni e di centri storici ne conta altrettanti. La simbologia è tutta nella storia dei protagonisti-voci narranti dei romanzi (Bacci Pagano, Mariolino Migliaccio) e il paesaggio urbano suscita sempre ricordi, pensieri ed emozioni che il lettore finisce per vivere in prima persona. Inoltre c’è la caratteristica di questo labirinto di pietra grigia, la sua mineralità, la costante presenza invisibile del mare, con le sirene delle navi e l’odore di refresco portato dallo scirocco.

Cosa ha di particolare La fine è ignota a tuo avviso rispetto ai tuoi precedenti lavori?
Una ricerca più penetrante e approfondita sulla lingua: non solo quella genovese, che ho utilizzato a profusione rispettando la grafia fissata dalle grammatiche (con la madre Mariolino parlava genovese e questo lo rende un trentenne atipico, così come è atipico nei suoi gusti in fatto di cinema, letteratura e musica), ma anche la lingua italiana così come la sentiamo parlare da italiani di altre regioni e dalle diverse etnie che compongono il melting pot delle nostre periferie: l’italiano degli slavi, dei sudamericani, dei magrebini e degli africani, che sono altrettante lingue con le loro connotazioni. Scrivendo questo romanzo, così come gli ultimi di Bacci Pagano, mi sono domandato a quali fonti attinga gran parte della letteratura crime che si pubblica oggi, e mi sono risposto che la fonte non è la realtà, e neppure la cronaca nera, ma le serie tv. Lavorare sulla lingua significa per me provare a recuperare la specificità letteraria, perché un racconto o un romanzo sono altra cosa da una serie televisiva.

A parte Mariolino, se dovessi far tornare uno dei personaggi del tuo ultimo romanzo in un tuo prossimo libro anche solo per un cammeo chi faresti tornare e perché? 
Forse farei tornare il dottor Ingroia, detto “il Gigante”, lo psicoanalista che compare nel romanzo Le cose che non ti ho detto (Garzanti 2007); è stato il maestro di Mara Sabelli, la fidanzata psicologa di Bacci Pagano, e l’investigatore lo ritrova dopo molti anni alcolizzato e a rischio suicidario. La relazione con lui aprirà al detective una finestra sul suo passato e sarà fondamentale nel cambiamento del personaggio. Come fondamentali sono stati per me i miei maestri, psicoanalisti quali Johannes Cremerius, Teresa Corsi Piacentini e Romolo Rossi.

A mio avviso La fine è ignota è il tuo romanzo più ispirato e quindi ti chiedo se dovessi dargli un colore, un solo colore, quale sarebbe e perché?
Non ho molta scelta: sicuramente il colore dell’ardesia, la pietra dei tetti della città vecchia, il grigio dei muri e delle strade dei carruggi, la tinta che meglio esprime la sua natura minerale e il suo durare nel tempo, attraverso un millennio di storia.
MilanoNera ringrazia Bruno Morchio per la disponibilità

@Foto di Gianni Ansaldi.

Antonia del Sambro 

Potrebbero interessarti anche...