Le campane di Bicêtre



georges simenon
Le campane di Bicêtre
adelphi
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René Maugras, direttore del più importante quotidiano di Parigi, è bloccato in un letto d’ospedale e non ha la minima coscienza del motivo. Non solo, si trova semiparalizzato e afasico, situazione che acuisce la sua curiosità. Perché solo di questo si tratta. Mentre il mondo fuori assume il peso del dramma e porta al capezzale del malato tutto l’armamentario di solidarietà pelosa e simpatia sincera che possiede, René Maugras vuole solo conoscere quale strano giro abbia avuto il suo destino. Semplice, è successo che una sera, durante una cena al ristorante con amici, si sia sentito male in bagno con perdita di conoscenza. Emiplegia è la parola che da ora in poi gli farà compagnia e riempirà le giornate. Per un certo verso il giornalista sembra soddisfatto. Eh sì perché, mentre luminari, colleghi e amici gli dicono che tanto i dati clinici quanto le esperienze nel campo propendono verso un suo completo ristabilimento, a lui non interessa guarire. La sua guarigione gli è del tutto indifferente. Non vuole essere tranquillizzato. Anche se le cose stanno in realtà proprio come gli vengono riportate. Maugras è già partito per un’altra direzione. Fa un bilancio della sua vita, fotografa con l’occhio dell’anima chiunque lo vada a trovare. E scopre del nero. Tanto nero. Nero sporco. Un po’ attaccato anche a lui, in verità.

Il suo ha il profilo di Lina, la moglie. Un’estranea che fa il bagno nell’alcol. Partono le domande. E fanno male. Perché non hanno il paracadute dell’autoassoluzione. Quello che cola sugli altri invece prende varie forme: sottile ipocrisia, reticenza interessata, invidie nascoste, vacuità mondana di cui è nudo lo scheletro. Il catalogo è ampio.

Poi c’è il ritegno e la vergogna del dover offrire un corpo che non ha più difese e che viene manipolato a piacere da due infermiere. Infine i ricordi. E quando arriva la cavalleria dei ricordi, si salvi chi può.
Scritto nel 1963 (e preceduto, cosa insolita per lui, da un’avvertenza scritta di suo pugno), Le campane di Bicêtre, è stato uno dei “romans romans” o “romans durs” (per intenderci: quelli senza il commissario Maigret) più amati in assoluto dal suo autore. Forse, come ha affermato il figlio John, perché Simenon descrisse, con quasi tre decenni di anticipo, una situazione che avrebbe dato del tu alla sua stessa sorte umana. Forse perché il suo respiro risulta così naturalmente universale. Fenomenale esempio di narrazione intimista, cruda non solo nella tipica espressione linguistica simenoniana, la storia si racconta negando sin dal suo principio ogni principio di azione e movimento. Maugras è immobile. L’universo dello scrittore è una stanza di ospedale abitata da un degente incollato al letto. Il palcoscenico fisico non cambia. Una realtà parallela ruota attorno con fughe che tagliano le certezze di una vita.
Non si tratta di una primizia nell’opera monumentale dello scrittore di cui quest’anno cade il trentennale della morte. In due altri romanzi (Il pazzo di Bergerac e Il Natale di Maigret), l’intera vicenda gira attorno a un’architettura identica. Ma qui non c’è un’indagine da organizzare, pedinamenti e trappole investigative con cui far correre le pagine. Qui non c’è la mole di Maigret. Ma la vita improvvisamente rinsecchita di un uomo che ha solo i suoi pensieri da slegare. E che si trova a far da giudice di un vissuto che continua ad aprire finestre che lui non pensava neanche incassate nel muro. C’è solo lui e la pietas di cui può disporre. E Simenon esce con tutta la maestria adamantina. Quella che ci porta in apnea fino al termine della narrazione.

Corrado Ori Tanzi

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