Utu. L’eredità del sangue – Michael Bennett



Michael Bennett
Utu. L’eredità del sangue
Rizzoli
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Una serie di omicidi che seguono un rituale. Una scia di sangue che affonda le radici nelle storie di violenza ai danni dei maori durante la colonizzazione della Nuova Zelanda da parte della Gran Bretagna nell’Ottocento. Uno stronzetto 18enne, bianco, che ha drogato e stuprato una ragazza maori, e viene condannato a una pena lieve. Una detective di origine maori che, diciotto anni prima, da agente alle prime armi, rinnegando le proprie origini ha fatto sgomberare manifestanti maori, che rivendicavano il proprio diritto alle terre sacre.

“UTU. L’eredità del sangue”, ed. Rizzoli, di Michael Bennett, sceneggiatore e regista neozelandese alla sua prima prova come romanziere, potrebbe sembrare un groviglio inestricabile di lotte antirazziali e di vicende troppo lontane nel tempo per avere effetti sul presente. Invece la storia, ambientata a Auckland, svela una società, quella neozelandese, in cui le ferite della feroce colonizzazione britannica non si sono mai rimarginate e in cui il tema razziale è quanto mai attuale, con una popolazione maori che continua a subire discriminazioni.

Ma Bennett, che nei suoi lavori ha sempre un occhio attento alla questione razziale maori, non ha scritto un saggio con venature storiche. Ha costruito una storia ben congegnata, in cui la vicenda storica dei maori e della colonizzazione che hanno subìto è fondamentale, ma perfettamente calata nel presente di una vicenda decisamente “gialla”, contorta e spiazzante quanto basta, a cominciare dalla serie di omicidii che, all’inizio, sembrano non avere alcun collegamento e, soprattutto, nessun movente. Certo, il tipo di scrittura di Bennett è particolare e in alcuni lettori, adusi alle rotondità o alle asprezze di autori più noti, può risultare in alcuni passaggi troppo frammentata e in altri quasi con un ritmo sincopato, ma rimane comunque piacevole, accattivante. D’altro canto, il lavoro primario dell’autore, sceneggiatore  e regista, in molti casi ha sicuramente un peso nella costruzione dei periodi, che risultano come immagini poste una accanto all’altra, per formare una sequenza costruita per tenere il lettore sulla corda e poi piazzare il colpo di scena, oppure per raccontare un momento di violenza.

La storia parte da un dagherrotipo di metà Ottocento in cui si vede un importante capo maori ucciso, spogliato e umiliato, impiccato a un albero, con le mani e i piedi legati (la stessa posizione della prima vittima, che dà il via alle indagini). Sotto di lui 6 soldati inglesi, fieri per quello che hanno fatto, schierati con espressione solenne. La vicenda ruota, poi, attorno alle figure di Hana Westerman, sergente senior di origini maori a capo di una squadra investigativa, e Raki Poata, avvocato, ex docente universitario, da sempre impegnato nella tutela dei diritti dei maori. Intorno a loro Jaye, ex marito e capo di Hana, e la loro figlia 17enne Addison, artista impegnata nelle proteste contro le ingiustizie subìte dai maori.

UTU in lingua maori significa “equilibrio e reciprocità”, ma l’indole pacifica del popolo maori rinnega l’ipotesi della vendetta intesa come reciprocità per ristabilire l’equilibrio. Ed è sulla interpretazione di questa fondamentale regola di vita che si innesta la girandola di omicidi che scuote la comunità di Auckland. L’idea dell’assassino è: ristabilire l’equilibrio rotto 160 anni prima, quando l’importante capo maori fu ucciso, impiccato all’albero sulla montagna sacra, dai sei soldati britannici. Perché “…meglio che sia un innocente a pagare, piuttosto che nessuno… Un debito non sparisce con il passare del tempo. Scompare solo quando finalmente si ripristina l’equilibrio”. Comincia così la mattanza: prima un ex detenuto, omicidio annunciato da un video che inquadra l’interno di un edificio fatiscente, in cui gli investigatori trovano il cadavere impiccato. Poi l’amministratore delegato di una società immobiliare, seguito da un attore e così via… Il minimo comune moltiplicatore è difficile da trovare, ma la detective Hana  in questo viene aiutata dalla traccia lasciata dall’assassino sui luoghi degli omicidii: un koru, una spirale stilizzata simbolo di rinascita per i maori. Da qui parte una discesa che porta i protagonisti in una corsa a rotta di collo per cercare di fermare la catena di morte.

Michele Marolla

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