A volto coperto



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A volto coperto
Tunué
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Cosa succede ai protagonisti di un noir, quando il film – o il libro – è finito? Cose inaspettate, incredibili. Come la vita, la normalità, la vecchiaia. Mattioli e Vergari nel loro graphic novel hanno il coraggio di alzare il velo della parola fine, e scoprire cosa c’è dopo gli spari e gli inseguimenti, dopo le ultime inquadrature e le battute finali che consegnano i personaggi alla leggenda. Quando li incontriamo, i protagonisti, Jean e Julia, sono già vecchi. La loro storia precedente ci viene raccontata solo per accenni, ma è come se la conoscessimo già; è fatta di bassifondi di Marsiglia, di sigarette all’angolo delle labbra, di passioni, rapine, canzoni malinconiche, e di film. Di film soprattutto, tanto che le immagini e citazioni di “à bout de souffle” si intessono di continuo alla narrazione. Jean e Julia sono alter-ego di Belmondo e Seberg, invecchiati, sopravvissuti. Trasformati in due improbabili Bonnie e Clyde ottuagenari, che cucinano, fanno la spesa, battibeccano come un qualsiasi coppia di nonni dei sobborghi, mentre preparano i loro colpi con la tranquillità di chi va al mercato. E’ una vecchiaia caparbia, la loro. Corpi sdruciti e consumati dalla vita, che non si arrendono e non smettono di volere quello che non si può. Sguardi che non accettano compromessi e continuano a sognare un mitico ultimo colpo. La vecchiaia è anche il rifiuto dell’epica. La consapevolezza che si può smettere di prendersi sul serio, e finalmente vivere. E incredibilmente, spudoratamente, amare. In una Marsiglia volutamente non bella, rarefatta e spoglia, fatta di angoli banali, palazzi anni settanta e vecchie automobili. Come nota Valerio Evangelisti nell’introduzione, quello francese è il noir senza l’estetica del noir, con la faccia grigia e spoglia della vita reale. La seconda parte si apre invece con Jean che celebra il proprio funerale, bruciando il passaporto con una bottiglia di wiskey in uno squallido hotel di Los Angeles. Qui il registro cambia, e l’ambientazione si immerge bruscamente nel mondo di Chandler, di Hammet, degli uomini malinconici con la pistola sotto il trench. Non per caso Bogart, con i suoi personaggi taciturni e cinici, era l’ispirazione di Belmondo. Los Angeles è paradossalmente una sorta di ritorno alle origini del sogno. Del cinema che ha ispirato il sogno. E qui val la pena notare che il fumetto non è una via di mezzo fra il cinema e la letteratura (anzi in tempi recenti è il cinema ad essere diventato una via di mezzo fra il fumetto e se stesso). Né tantomeno è letteratura disegnata, come tanti vorrebbero. Ma è grazie alla sua doppia anima fertile e ricca, immediata e profonda, che sa creare dal nulla mondi di parola-immagine. Gli basta una storia volutamente marginale, come questa, per tessere uno struggente omaggio al noir.

anna aglietti

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