Collateral

Regia: Michael Mann
Produzione: Michael Mann, Julie Richardson
Sceneggiatura: Stuart Beattie
Cast: Tom Cruise, Jamie Foxx, Mark Ruffalo, Jada Pinkett Smith, Javier Bardem
Musica: James Newton Howard
Direttore della fotografia: Dion Beebe
Montaggio: Jim Miller, Paul Rubell
Distribuzione: DreamWorks SKG, Paramount Pictures
Anno di distribuzione: 2004
Durata: 119 min.
“Collateral” di Michael Mann è un’opera a suo modo singolare, un film notturno, e non semplicemente perché girato al buio della notte americana, ma perché a livello propriamente concettuale trasuda un senso di intima, claustrofobica oscurità.
Uscito nel 2004, il decimo lungometraggio del regista americano (classe 1943) racconta fondamentalmente due storie, quella di una notte di violenza, vista con occhio quasi distaccato, antropologico, e la storia di un incontro, quello tra Max, tassista di notte, e Vincent, killer professionista. Questa seconda è probabilmente la dimensione più importante, sulla quale potremmo dire, come al solito, che è un destino beffardo, a fare incontrare i due individui. Ma non è così, per Mann. Non si tratta di destino, ma di coincidenze, piuttosto, che tracciano una possibile traiettoria, sulla quale però è chi la deve percorrere, che ha l’ultima parola. Un po’ tutto il cinema di Michael Mann gira intorno ad una assenza di “fatalità”: sono gli uomini a decidere la propria vita, le scelte svoltano ogni storia, gli istinti spingono verso un epilogo piuttosto che un altro. E in quest’opera più che mai è la psicologia dei protagonisti, straordinariamente delineata, a intessere e convogliare la trama della cupa vicenda del taxi pubblicizzato Bacardi Breezer…
Una storia semplice, quella alla base di “Collateral”: Max, tassista, accetta 600 dollari per fare da autista a Vincent, fino all’alba (6 sono le fermate prenotate). Lo fa perché quel denaro gli fa comodo, come a tante persone che fanno quel che possono per sbarcare il lunario. Accettando tale proposta è ignaro del fatto che Vincent è un killer professionista, assoldato da un’organizzazione criminale per eliminare 6 scomodi pentiti.
Michael Mann sfrutta il canovaccio di base e vi ricama sopra una sorta di viaggio esistenziale,  collaborando (non accreditato) alla notevole sceneggiatura di Stuart Beattie. I temi cari al regista qui si fanno più accentuati, più forti e meglio affrontati rispetto ad altre pellicole precedenti. Il pretesto del taxi, che funge quasi da “gabbia” per i due protagonisti, è un modo per dar adito a lunghe conversazioni, veri e proprio scontri, tra Max e Vincent (fotografati, inquadrati e montati in maniera superlativa – le inquadrature dentro al taxi sono molteplici e difficilmente si ripetono). Mai banale, il film estende il concetto primordiale della caccia – la preda è irrimediabilmente Max e Vincent ne è predatore – contestualizzandolo all’interno della società contemporanea. Michael Mann studia i protagonisti, li fa ragionare profondamente, li mette di fronte alle scelte della vita, li fa divenire, ad un certo punto, ambedue “preda” di qualcun altro. E allora preda e predatore condividono lo stesso sedile di un’autovettura. Il mondo diviene subito diverso, per entrambi, più cupo, più tremendamente senza scampo. Mann scava, e scava, e scava nell’animo umano. Lo fa attraverso il genere che gli è da sempre più congeniale: il noir. E ancora una volta sfida le regole del cinema e costruisce il suo personale sguardo, maturo, colto e non banalmente action. Pur sconvolta da attimi di iperbolica violenza (si veda la scena della discoteca), la trama si svolge infatti cadenzando le vicende con ritmo volutamente dilatato. La colonna sonora, efficacemente varia (alterna pezzi rock, atmosfere rarefatte, tracce lounge…), fa da contrappunto ideale alla storia. Il tutto si fonde assieme, risultando complessivamente coerente e mai noioso.
Interpretato benissimo, non sfigura nel doppiaggio italiano (efficacissimo). Per i cinefili più intransigenti e convinti, consiglio comunque la versione originale. Jamie Foxx è magistralmente in parte: uomo comune, sfigato di turno, spaventato come deve esserlo ogni preda – ma pronto, anche se solo istintivamente, non razionalmente, a tirare fuori gli artigli. Tom Cruise è semplicemente memorabile. Abbandonando la sua celeberrima interpretazione “tarantolata” costruita su eccessi, qui lavora per sottrazione, delineando la figura “stanca” di un uomo compassato, quasi stufo della sua vita e del suo lavoro. Professionista del crimine, impeccabile nell’abito banalmente grigio – frutto dell’ovvia necessità di passare inosservato – Vincent è forse giunto al capolinea, come professionista appunto, come assassino, come uomo nel momento stesso in cui sale sul taxi. Ma non lo sa, ha bisogno che qualcuno glielo dimostri.
Bene e Male, ancora una volta sono visti da lontano, con sguardo perso, a tratti persino “languido”, come se di fatto volessero amoreggiare, fondersi assieme, perdendo il senso del distacco l’uno dall’altro.
Definitivamente “Collateral” è quasi “vittima” di una certa strana dicotomia: in qualche modo punto di svolta rispetto ai film precedenti, rimane pur sempre un’opera manniana in senso lato. L’utilizzo del digitale (quasi l’80% dell’intera pellicola) permette al regista americano di fotografare una Los Angeles ruvida, sporca, sgranata. I colori appaiono quasi distribuiti a “random”, come usando dei pastelli sul fondo oscuro della notte americana. Colori acerbi, lontani mille miglia dalla traslucida tendenza hollywoodiana da blockbuster. I movimenti catturati dall’ottica digitale appaiono anch’essi “diversi”, forse più lineari, quasi a figurare un connotato più reale, meno cinematografico, meno altisonante, e dunque meno “finto”. La scelta di Dion Beebe alla direzione di fotografia è a sua volta una virata rispetto al passato. Dante Spinotti passa il testimone al talentuoso australiano (Nomination per “Chicago” e Oscar per “Memorie di una Geisha”) e la sua impronta si sente nelle scene a cielo aperto e nella claustrofobia del taxi. Complessivamente un film per capire che, anche attraverso una banale idea “thriller”, è possibile raccontare un pensiero, un concetto. Svilupparlo, poi, è tutta un’altra cosa. Ma Michael Mann, questo, lo sa fare. E se ancora c’era qualche dubbio, con “Collateral”, l’ha ampiamente fugato.

massimo versolatto

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