Rancore – Gianrico Carofiglio



Gianrico Carofiglio
Rancore
Einaudi
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Gianrico Carofiglio appartiene da anni a quell’esiguo olimpo di autori italiani costantemente celebrati da critica e pubblico, non solo in patria ma anche all’estero, visto che le sue opere sono tradotte in ben ventotto lingue. Uno sguardo attento ai mali contemporanei, personaggi vibranti di umanità, una scrittura piana e accurata, sono le costanti di un successo che si rinnova a ogni uscita editoriale.

I suoi rodati protagonisti, l’avvocato Guido Guerrieri e il maresciallo Pietro Fenoglio, con la loro perfetta miscela di virtù, idiosincrasie e piccole manie restano impressi nella nostra mente come altrettanti amici ai quali, girata l’ultima pagina di ogni romanzo, vorremmo telefonare in ossequio all’aforisma di Salinger. 

Non diversamente accade con il suo personaggio più recente, l’ex pubblico ministero Penelope Spada che, giusto un anno fa, ha fatto la sua apparizione ne La disciplina di Penelope (Mondadori, Il Giallo Mondadori, 2021). Carofiglio in quell’occasione, dopo averne scolpito un ritratto a vivido rilievo, lasciava però inspiegate le ragioni che avevano costretto Penelope ad abbandonare un lavoro vissuto fin lì come un’appassionata missione. Ragioni gravi senza dubbio, drammatiche addirittura, che l’avevano relegata in un limbo ammorbato dall’acre odore dell’autodistruzione, ostaggio non riscattabile di schiaccianti sensi di colpa.  

L’autore, quelle ragioni, le svela adesso in Rancore (Einaudi, Stile libero big, marzo 2022): un’indagine che impegna Penelope, divenuta investigatore privato seppure in veste ufficiosa, a dipanare un’ambigua trama di morti sospette, eredità contese, livori famigliari, abusi di potere. Un giallo classico, direte voi. E, invece, no. 

Vittorio Leonardi, docente universitario e chirurgo di chiara fama, muore all’improvviso per infarto nella sua elegante residenza milanese. In solitudine, perché la seconda moglie – un’attricetta di bell’aspetto ma scarse doti artistiche, di ben trentasei anni più giovane –  si trova lontana, in un centro termale alla moda. Loporto, collega e amico di una vita, chiamato il mattino successivo dalla domestica che ha rinvenuto il cadavere del cattedratico, può solo constatarne il decesso e firmare il certificato di morte per cause naturali.  Nessun dubbio. 

La figlia Marina però di sospetti ne ha, soprattutto dopo la lettura del testamento con cui il padre assegna alla seconda moglie la fetta più golosa del suo ingente patrimonio. Consigliata da un amico avvocato che aveva conosciuto Penelope ai tempi del suo ruolo in magistratura, la Leonardi si rivolge all’ex pm e lei, seppur di malagrazia, accetta l’incarico.  Quel caso infatti, che al  primo sguardo le appare come una banale storia di dissapori famigliari e avidità, le sembra del tutto prevedibile e destinato a risolversi in nulla.  Invece una trama delittuosa, indizio insignificante dopo indizio, comincia a delinearsi seppure con contorni sfumati, mentre l’appartenenza del defunto a un occulto gruppo di potere costringe Penelope ad affrontare non pochi nodi del suo passato.

Gli ingredienti di un giallo classico ci sono tutti, eppure Rancore resta un giallo atipico.  Lo afferma lo stesso Carofiglio alludendo soprattutto al fatto che l’io narrante è una donna raccontata per voce di un uomo. Un autore che le ha regalato «movenze femminili e connotati maschili», e molte delle sue idiosincrasie. 

Di insofferenze infatti Penelope ne ha parecchie, detesta l’ovvio, i contatti troppo ravvicinati, le emozioni degli altri, il doversi raccontare. Se poi parla, il suo impulso naturale è di contraddire l’interlocutore, un impulso «a volte giusto, più spesso sbagliato».  Di frequente poi si rifugia nelle bugie perché «riconoscere la realtà, le appare insopportabile». 

Penelope, soprattutto, non si perdona un errore che le è costato la carriera. Beve ancora troppo, e fuma costringendosi a una ipocrita routine di sigarette contate: a smettere non ci pensa nemmeno perché la sola idea le «comunica un senso di lutto intollerabile, significherebbe chiudere i conti in modo definitivo con la prima parte della sua vita». E, in virtù di quella sua chiusura al mondo, non può avere relazioni fisse, solo incontri di una notte.  Non ha neppure amici, salvo un cane, un bull terrier di nome Olivia verso cui nutre amore e rispetto degni di un essere umano.  

Più di tutto però, Penelope possiede un profondo senso di giustizia, conservato intatto dagli anni in cui apparteneva all’ordinamento giudiziario, che tuttora la costringe a schierarsi dalla parte delle vittime di reati. Queste infatti, ben più che la punizione dei colpevoli, vogliono la verità, «l’unica cosa che nel lungo periodo è capace di guarire le ferite, di placare il dolore».  E lei la verità la cerca senza posa, con pazienza indefessa, consapevole che un buon investigatore deve continuare «fino a quando – per caso, fortuna, bravura, cocciutaggine – qualcosa si accorda inopinatamente con qualcos’altro». Così Penelope, da quella mescolanza apparentemente amorfa di ”orme, segni, indizi”,  ricostruisce una pista e riesce a dare risposta ai classici quesiti di un crime in piena regola: colpevole, movente, modalità di esecuzione.

Una grande protagonista per un giallo che resta atipico, e lo dico in senso positivo. Rancore, infatti, non somiglia per nulla a un’opera di genere ma molto ai romanzi di Simenon non incentrati su Maigret: per quella essenzialità rappresentativa comune a entrambi – nel delineare un personaggio, un ambiente, un’atmosfera – che sa tradursi in una straordinaria capacità evocativa e in una costante tensione da quotidiano dramma psicologico. 

Lo stile stesso di Carofiglio, piano e sorvegliato, nitido sempre perché privo di qualsiasi artificio retorico, si presta a una narrazione mai di superficie, in cui l’esplorazione degli anfratti più celati di un personaggio risulta altrettanto avvincente dei progressi investigativi o dei crimini della cronaca.

Una lettura a molteplici piani, tutti intriganti. Non ultimo quello che riguarda la tecnica di «evitare le parole non necessarie», regola questa che Carofiglio deriva da un manuale degli anni Trenta ( n.d.r. The elements of style) e applica con indiscussa bravura.  

Come dire che l’apparente semplicità è frutto di una metodica e puntigliosa sottrazione.

Giusy Giulianini

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