Gesuino Nemus – L’eresia del Cannonau – Leggi l’estratto in esclusiva

COVER eresia del cannonauGesuino Nemus
L’eresia del Cannonau
Elliot Edizioni

Ringraziamo la  Elliot per averci concesso  in esclusiva un estratto dal libro 

 

 

I
Quella bottiglia d’orzata

«Signore, mi scusi, ma dobbiamo chiudere».
Era da tanto che non ti sentivi dire: «Mi scusi». Da circa ventisei anni.
E darti del “signore” poi…
La ragazza è gentile, educata, ma sono già le venti e trenta. Non c’è più nessuno nel bar e lei comincia a fare le pulizie. Domani riaprirà all’alba per il primo caffè dei tramvieri.
Sei lì dalle nove e quindici di stamane.
Ti sei fatto più di undici ore seduto al tavolino. Perché non sai dove andare, cosa fare.
Dormire? Andrai verso la Stazione Centrale, dove finirai in una pensione a ore.
Hai pochi soldi in tasca. Forse ti basteranno per qualche settimana.
Tutta la tua roba in un borsone di finta pelle: qualche cambio di biancheria, due camicie, una piccola borsetta gialla dove ci sono un rasoio, uno spazzolino e un tubetto di dentifricio che, a voler essere ottimisti, potrà durare due giorni al massimo.
Te li sei fatti tutti i tuoi ventisei anni.
Non hai mai collaborato e neanche i soldi per l’appello avevi.
Avvocato d’ufficio e gratuito patrocinio.
Desideri la nebbia. Manco quella c’è. Ti avrebbe avvolto, come solo quella che c’era ai tuoi tempi sapeva fare.
E, infagottandoti nella sua scighèra, la città avrebbe attutito il tuo rancore, il tuo astio verso te stesso, mutandolo in malinconica commiserazione per i tuoi errori.

♫ Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia d’orzata
dove galleggia Milano ♫

Quanto ti piaceva quella canzone di De André. La ascoltavi dalla mattina alla sera, La domenica delle salme, tanto di tempo ne avevi. Giornate interminabili che mai diventavano mesi: figurarsi anni.
Sdraiato in branda. Anche l’ora d’aria saltavi, pur di ascoltare il tuo Faber.
Gli avevi anche scritto, all’indirizzo della sua casa discografica, che ti aveva dato un tuo compagno di cella, per ringraziarlo delle emozioni che ti regalava.
Non ti rispose mai. Eri solo uno dei tanti e, magari, la tua lettera, scritta a mano, non gli fu neanche recapitata.
Ma ora devi andare. Il carcere nel quale sei stato negli ultimi dieci anni è lì, davanti a te. Le luci gialle, quelle delle mura di cinta, ti mancano già.
Hai provato a dire alla ragazza, che continuava a chiederti cosa desideravi:
«Aspettavo un amico, ma mi sa che non verrà più».
Ti ha sorriso e si è accontentata di quattro caffè, un panino speck e brie, un bicchiere d’orzata, una bottiglia d’acqua frizzante e una fetta di crostata. Appena quattordici euro e cinquanta per stazionare nel suo bar tutto il giorno.
Sapessi quanti ne ha visti di quelli come te che escono di galera e hanno paura anche di prendere un tram. Ha fatto finta di crederci e sa che chi esce al mattino, quasi sempre, a meno che non abbia amici
o parenti che lo vengono a prendere, sta lì, con la sua borsa, i propri pensieri e quell’odore di carcere peggiore delle friggitorie cinesi.
All’inizio si commuoveva a sentire quelle storie, poi l’abitudine al dolore gliele ha rese quasi fastidiose.
Però sorride nel sentire quella scusa che è sempre la stessa.
Certo che, mannaggia, non te ne va bene una.
Sei uscito di galera proprio nell’estate di San Martino.
Un novembre così caldo non s’era mai visto da due secoli a questa parte. Il piumino nero che ti ha regalato l’ultimo arrivato nella tua cella non ti servirà, almeno per adesso. Sembra primavera.
E tu la odi, quella stagione. Ti ricorda la vita che nasce e ti immalinconisci.
Ami l’inverno, il grigio, la nebbia e la neve: quella sì che ti mette allegria.
Ora devi proprio uscire. Saluti e ringrazi.
Camminare, camminare, camminare… senza una meta precisa.
Neanche ti chiedi quanto sia cambiata la tua città, come siano diverse le automobili, più ampie le strade e più luminosi i semafori.
Il rumore è sempre lo stesso. Infernale era ai tuoi tempi: insopportabile è diventato ora. Nulla è cambiato e il suono di Milano è identico a quello della tua gioventù: cacofonico.
Non prendere i mezzi pubblici, ma vai così, a piedi, come facevi quando uscivi dalla fabbrica e saltavi le prime tre fermate di tram, per toglierti l’odore della ghisa che fondeva negli altiforni, convinto che
chiunque se ne sarebbe accorto anche se ti eri tolto la tuta.
Ma l’odore dello sgobbo non te lo puoi levare così facilmente.
Ci vogliono anni di spiagge incontaminate, di mari del Sud e, forse, non bastano.
Gli stessi paradisi che sognavi a fine mese, quando percepivi il salario.
E tu sì, che l’hai vista, la “Milano da bere”.
L’hai vissuta e te li ricordi quelli che giravano con macchine da cento milioni mentre tu avevi la 127 color turchese.
E ti chiedevi: «Ma come fanno ad avere tutti ’sti soldi?». Persone che erano nate nel tuo stesso quartiere e avevano fatto le tue stesse scuole, all’improvviso te le ritrovavi con un tenore di vita da ricconi.
Ciondolavano tra un aperitivo e un altro. Non riuscivi a capire cosa fossero le agenzie di pubblicità e le “società di servizi”, che lavoro facessero. Ti dicevano «Cosa stai a fare ancora lì, in fabbrica?», come se quel benessere diffuso fosse alla portata di tutti e quello slogan «Milano è da vivere, sognare e godere» una coscrizione obbligatoria alla felicità.
«Alùra, te sbrighet a fa i danè? [Allora, ti sbrighi a fare i soldi?]».
E le donne? Tutti ne avevano di bellissime, sempre diverse, sempre disponibili. E le case, poi? Quadrivani, pentavani, attici e terrazze come se piovesse. E tu? Due locali nella periferia estrema, in affitto, ché di più non potevi permetterti.
Una casa ideale per custodire un sequestrato.
Non dava nell’occhio e tu ci sei cascato.
Sei diventato onesto con te stesso, in tutti questi anni, e hai rinunciato alle “nobili” giustificazioni politiche. Dell’autofinanziamento non te ne importava nulla. Rapire un industriale per sostenere la lotta armata era l’ultima delle tue scuse.
L’hanno fatto gli altri il sequestro, certo, i tuoi compagni.
Tu l’hai “solo” custodito. E sei stato anche bravo e umano. L’hai trattato bene, mangiava regolarmente, alla sera quando tornavi e al mattino prima di uscire. Non hai mai dato nell’occhio assentandoti dal lavoro, e condannavi pubblicamente questi atti che «fanno solo male ai proletari».
Pensavi al tuo miliardo, la tua parte.
Un gioco da ragazzi sembrava.
Solo che una notte, mentre dormivi, i Nocs ti hanno sfondato la porta e ti hanno beccato in flagranza. Gli altri sono riusciti, non si sa come, a espatriare o a evitare l’incriminazione. Gli eri rimasto solo tu di tutta la banda: il custode.
Ti sarebbe bastato parlare, fare i nomi, dire come davvero stavano le cose e te la saresti cavata con dieci, dodici anni. Non hai mai detto una parola. A te, l’unico a cui non importasse nulla del movimento, hanno appioppato l’epiteto: “Irriducibile”.
Nessun giudice ha mai creduto che tu conoscessi solo due di quelli che avevano fatto il sequestro. Le loro idee ti piacevano, ma tu volevi i soldi.
Erano i loro nomi di battaglia che ricordavi. Poca roba.
Anche perché trovarono i volantini con la rivendicazione proprio dietro l’armadio della camera da letto in cui tenevi il prigioniero incatenato e bendato.
Avevi sognato tutte le cose che avresti potuto fare con quel miliardo di vecchie lire: una casa a Santo Domingo, una donna diversa a settimana, il cabriolet, le spiagge incantate.
Nessuno sa che il rispetto che gli altri carcerati ti hanno sempre portato era frutto della tua ignoranza e della tua ingenuità. Un industriale brianzolo che veniva rapito non poteva passare inosservato, ti pare?
Tutti pensavano che tu fossi un vero uomo d’onore; nessuno poteva immaginare che tu non conoscessi i tuoi complici.

Estratto da “L’eresia del Cannonau” di Gesuino Némus, Elliot edizioni
© 2019 Lit Edizioni s.a.s.
Per gentile concessione

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