Marcata dai ritmi e l’andamento di un’opera lirica (con Toscanini a fare da spalla) , servendosi della raffinata tecnica del plagio a mosaico secondo Francesco Recami o da geniale ladro di storie (a detta dei suoi figli) e invece per me da astuto spigolatore, dopo L’ombra del campione, Luca Crovi riporta sulla scena il commissario De Vincenzi, (il Poeta del crimine, il Maigret all’italiana), l’indimenticabile eroe dei romanzi di Augusto De Angelis, grande e contestato autore degli anni ’30 (quando ohimè il fascio imperava tarpando le ali) che aveva saputo creare nostrane atmosfere giallo, poliziesco, noir. Logico, direte voi, squadra vincente non si cambia e bene direte perché il nostro ricciolino Luca, anche se stavolta lascia muto e invisibile in panchina Peppino Meazza, da bravo affabulatore persevera con la sua magica formula di suddividere la storia in racconti/capitoli narrativi che, per l’occasione, raccoglie e trasforma artamente in Atti. E dunque, come ci spiega accuratamente alla fine,i suoi racconti capitoli saranno raccolti e suddivisi in preludio, primo atto, secondo, terzo e gran finale. Racconti/capitoli a puntate anche questi di L’ultima canzone che sarebbero godibilissimi persino trasposti sulle pagine di un giornale (vedi quanto accaduto a L’ombra del Negher, addirittura felicemente comparso nelle pagine del Giornale, prima di essere inserito in L’ombra del campione). Ma torniamo a L’ultima canzone in cui Crovi rispolvera di nuovo e a ragione come protagonista della sua seconda fiction giallo-thriller-noir De Vincenzi e si rituffa a volo d’angelo (o sarà invece di drago?) in un’ intrigante storia milanese, dal sapore squisitamente retro. Sapore arricchito dal profumo di manicaretti meneghini che filtrano anche stavolta dalla accogliente portineria dalla “sciura” Maria Ballerini ( eccellente rivisitazione della bisnonna di Luca). Poi, giocando come un funambolo, tra verità e fantasia, ma dove spesso la verità domina con prepotenza e varca addirittura i limiti della fantasia, regala ai lettori uno specchio a riflettere di fatti vissuti e sensazioni provate dai milanesi a cominciare dagli intrighi politici collegati alla nascita dell’Autodromo di Monza nel 1922 e al primo difficile Gran Premio. Quando i sette uomini vestiti di nero obbligarono con brutali minacce Ettore Bugatti a far partecipare una sua vettura. Automobili rombanti invadono le strade milanesi, lasciandosi dietro un scia di fumi di benzina, ovunque è un fervore di nuovo: si lavora a smantellare strade, stradine e vicoli per far posto ai boulevard…. La marcia su Roma, ha portato al trionfale avvento del fascismo in tutto il paese. Tutto pare destinato a cambiare, anche a Milano Il pugno di ferro, le soperchierie e la protervia degli uomini della milizia, gli sgherri, vorrebbero controllarla, imprigionarla. Dilagano malaffare e malcostume sorretti da una mafia fascista autorizzata. Dilagano persino alla Scala, dove Arturo Toscanini si rifiuta di far eseguire Giovinezza. Toscanini era stato uno dei primi iscritti al partito fascista in aura socialista del dopoguerra. Non poteva certo immaginare la successiva disordinata deriva a destra del Duce e dei suoi uomini. A nessun costo ora è disposto ad accettare violenze e prevaricazioni all’interno del Tempio della musica… ma non sarà facile e non sarà certo un rapporto facile quello del Maestro con Mussolini e il partito, ci saranno minacce, semi esili in Toscana, controlli telefonici e peggio. Una situazione insostenibile che lo porterà nel 1939 al definitivo abbandono dell’Italia per gli Stati Uniti. Ma intanto nella Milano del ’22, nei vecchi quartieri ancora in piedi, i “bravi ragazzi” della “ligera” la famosa mala meneghina si consorziano e rispondono per le rime agli sgherri di Mussolini. E tuttavia pian piano l’atmosfera cittadina si annebbia e si oscura anche se nella questura di piazza San Fedele il commissario Carlo De Vincenzi non abbassa mai la guardia. Ma tira una brutta aria, bisogna adeguarsi a certi dettami e anche la morte di un barcaiolo che sta trasportando un ultimo carico di carta verso il Tombon de San Marc, prima dell’interramento del Naviglio, dovrebbe sembrare un incidente. Ma non a De Vincenzi che sente puzza di bruciato e pur con le mani legate non si lascia ingannare da chi vuole depistarlo e, come a lui, ai malnatt della ligéra che della gran Milan conoscono l’anima e la lingua segreta. E purtroppo nonostante il parere contrario della Sovrintendenza, il Naviglio sta per cantare la sua ultima canzone. Eh già perché fu così che i giornali del 1929 (certo quell’epoca vi raccomando la libertà di critica) accolsero con entusiastici articoli la decisione del Comune presa, secondo le deliranti pretese del roboante estratto della Relazione ufficiale dell’Amministrazione di Milano, stilata per farne approvare la chiusura della «fossa interna»: «Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione…». lnsomma il Naviglio interno dovette arrendersi e lasciarsi occultare sotto le nuove coperture in pietra imposte dai nuovi padroni fascisti. A gennaio del 1929 Milano rimase paralizzata dal Generale Inverno, quello che fu il peggior nemico dell’esercito napoleonico in Russia. Il gelo assediò la città per settimane avvolgendola con il suo bianco manto di neve. Tutto era fermo in città e nel paese: treni, pali elettrici crollati, strade interrotte,Venezia languiva con la laguna imprigionata da una morsa di ghiaccio. Il freddo infernale costrinse Vincenzi ad andare a comprarsi dei guanti nuovi in un laboratorio dove lavorava un suo vecchio commilitone. Guanti che gli regalano anche un pellegrinaggio nella memoria con il ricordo dell’accoglienza degli sfollati del dopoguerra nel 1919. Ben settantacinquemila profughi arrivati alla stazione e alloggiati in qualche modo dall’Umanitaria… Anche il recupero della ruera (l’immondizia) affidato ai veicoli della Spai, la cooperativa fascista degli spazzini, era diventato un’impresa. Ma quando uno di loro stracarico di neve si trovò a transitare con difficoltà davanti alla basilica di Sant’Ambrogio, l’uomo alla guida notò qualcosa davanti alla Colonna del Diavolo, vicino alla basilica di Sant’Ambrogio. Sceso a controllare vide che era il cadavere di una ragazza ricoperta dalle neve. Vincenzi indaga, il volto e il nome della morta gli sono noti, l’autopsia dice che è stata assassinata, cerca di andare più a fondo ma si scontra con una rosa di veti dall’alto. Il caso rischierebbe di compromettere alcuni membri del Partito, ma lui non si lascia fare non demorde, insiste, ma è entrato nel mirino della squadracce, tutto può succedere… Un continuo inanellarsi di storie piene di fatti, figure e nomi veri, eh già perché per esempio pare favola e invece è realtà che il Carmelo Camilleri, famoso commissario dell’indagine sulla strage di piazza Giulio Cesare, poi mortificato e costretto a dimettersi dopo la scoperta del coinvolgimento di una cellula fascista, fosse lo zio di Andrea Camilleri e forse il suo modello per la figura di Salvo Montalbano. Insomma precisi ricordi, tante succose o tragiche verità incollate tra loro da un pizzico di fantasia per dar più sale alla trama, arricchite da particolari utili a ricostruire e far rivivere quel mondo di allora, affollato da quella colorita umanità che sapeva affrontare la vita a testa alta, con coraggio e sbeffeggiare il potere con una risata. Ce ne fossero oggi. Ne sentiamo il bisogno.
Luca Crovi – L’ultima canzone del Naviglio
Patrizia Debicke