E’ stata un’estenuante e lunga cavalcata nomade nelle steppe infinite della Mongolia. Una trilogia che è come un blues distopico dalla bellezza struggente. Ne La morte nomade, l’ultimo capitolo di una saga destinata ad entrare nella storia del noir internazionale, si trova la definitiva conclusione, la consacrazione e il passaggio a leggenda dell’ex poliziotto Yeruldelgger. Come succede ai miti del basket dell’Nba, la sua canotta sarà per sempre ritirata e nessuno dopo di lui potrà mai giocare con quel numero.
Yeruldelgger è tutto. E’ un mix di rudezza e bontà, abbina la sagacia investigativa a momenti di pura violenza, è combattuto dai suoi demoni e dalla sua storia, è afflitto dai problemi e dalle deturpazioni che affliggono la Mongolia, è intriso di mito nomade rifiutando la modernità e la perdita dei valori secolari del suo popolo.
In quest’ultimo capitolo (anche se vorremmo che Manook fosse prolifico almeno quanto Simenon) accade di tutto: morti nel deserto, a New York e in Australia, personaggi che si alternano in un caleidoscopio di storie, drammi ed enigmi da risolvere, in cui si possono trovare cavallerizze nomadi che si abbandonano a Yureldelgger per chiedere un aiuto per ritrovare le figlie scomparse, facce nuove come l’agente di polizia Guerlei (fantastica) e personaggi che fanno capolino dai capitoli precedenti come il medico legale (e non solo) Solongo, l’agente speciale Zarza e quello degli affari interni Bekter. C’è la femme fatale che incarna il diavolo, l’esercito dei Mille Fiumi per una Mongolia libera, tre artisti nomadi mongoli ed un francese che girano nelle steppe sconfinate per dipingerle a bordo di uno scassatissimo autobus.
E’ un romanzo che è anche una denuncia, un grido di dolore verso una terra deturpata da forze straniere, occupanti capitalisti che sfruttano le popolazioni e il sottosuolo per scovarne le ricchezze minerarie. Suo malgrado Yureldelgger, nonostante il suo ritiro spirituale lontano da Ulan Bator, si troverà a capo di una vera rivolta contro i capitalisti occidentali, con tanto di magliette stampate sul modello Che Guevara: Yureldelgger, Delgger Khan.
Ma quest’ultima è solo una storia dentro alle tante altre che fanno viaggiare questo romanzo alla velocità della luce e che ti fanno sentire, una volta finito, mancante di qualcosa. Quel qualcosa non è altro che la voglia di tornare indietro e rileggere tutto di nuovo, dall’inizio, dal primo episodio che porta il nome dell’ex poliziotto mongolo.
In “La Morte Nomade” si trovano mille storie e altrettanti drammi, vittime povere e ricche mentre in sottofondo risuona l’ancestralità che ci ha fatto innamorare della Mongolia. Perché Manook, oltre ad essere un abile tessitore di trame noir, resta un meraviglioso impressionista della sua terra “…Camminarono in silenzio. Davanti a loro, la pianura era tappezzata di edelweiss per alcune centinaia di metri prima di sollevarsi fiaccamente fino al crinale eroso di un’altra collina, oltre il fiume. Terminava in una scarpata piena di vegetazione un chilometro più in là, per trattenere il grande deserto di sabbia increspato di dune che correva là dietro, come il mareggio immobile di un oceano. Avendo per scogliere, in lontananza all’orizzonte, gli ultimi contrafforti bruni della catena montuosa dell’Altai. La steppa non era altro che una successione di onde immobili fatte di pietre ocra, di erbe blu, di sabbia bionda. Quando le si prende obliquamente, arrampicandosi fino alle creste aggrappate al cielo basso e immenso, è come lasciarsi sollevare dal mareggio. E scendere dall’altro lato, a piedi o a cavallo, trascinati dallo slancio e dalla pendenza, è inebriante come fare surf su un’onda dell’oceano…”.
Un ultimo ringraziamento, doveroso, va alla Fazi Editori e al magnifico lavoro di traduzione (immagino non semplice) di Maurizio Ferrara. Senza di loro non avremmo potuto conoscere il mito Yureldelgger.
Yeruldelgger – La morte nomade
Marco Zanoni